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Il mio maestro, Paolo Borciani

dal booklet per il CD Ages 509-003-2: The Great Concert Hall Recordings, Quartetto Italiano, Haydn e Schubert - 2004


A coronamento di questa pubblicazione proponiamo uno scambio di idee col Maestro Fulvio Luciani, allievo di Paolo Borciani e fondatore di un quartetto attivo ormai da un ventennio che sin dallo stesso nome esprime la riconoscenza nei confronti degli insegnamenti appresi dal celebrato fondatore del Quartetto Italiano. Il Quartetto Borciani ha debuttato a Salisburgo nel 1987, negli Stati Uniti l’anno successivo e nel biennio 1991/’92 ha partecipato al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Oltre alle numerose dediche di compositori italiani contemporanei la formazione ha eseguito in prima assoluta il riscoperto Quartetto per archi di Giacomo Puccini (Lucca 2001), che verrà presto pubblicato su CD. Siegfried Palm, Hatto Beyerle (violista fondatore del Quartetto Alban Berg) e Bruno Canino sono alcuni degli artisti che hanno collaborato con la giovane formazione che, tra le poche al mondo, ha eseguito in concerto (nel corso di un’unica stagione) l’integrale dei Quartetti per archi di Beethoven. La continuità data dal Quartetto Borciani alla scuola quartettistica del Quartetto Italiano è sottolineata da un giudizio di Pina Carmirelli che qui riportiamo: “Ho molto ammirato il Quartetto Borciani, l’esecuzione del Quartetto di Ravel è stata impeccabile”.


Fulvio Luciani, violinista e membro fondatore del Quartetto Borciani, che tipo di insegnante era il Maestro Paolo Borciani?

Era un insegnante rigoroso, che educava gli allievi con l’esempio della disciplina che imponeva a se stesso. Ed era un insegnante che non sarebbe più possibile incontrare, perché oggi in Italia si è deciso di cancellare la figura dell’insegnante unico, con la responsabilità dell’intero percorso scolastico dei suoi studenti. Pensi che io, che non avevo mai toccato un violino, ho potuto studiare presso il Conservatorio di Milano fino al termine degli studi sotto la guida di un artista celebre nel mondo.

Ma questo ancora non risponde alla sua domanda. Era un maestro vero, desideroso di rendere i suoi allievi capaci di camminare con le proprie forze, di renderli indipendenti da sé. Ora che anch’io insegno capisco che questa è la più gran gioia per un insegnante. Ed era uomo continuamente alla ricerca, che non temeva il dubbio, capace di ascoltare con attenzione anche le argomentazioni di un ragazzo. In questo, realizzava un rapporto da pari a pari, di fronte alle questioni musicali, estremamente educativo.


Oltre allo studio del violino Lei ha anche cominciato il percorso di formazione del suo quartetto col Maestro Borciani, e intrattiene ancora oggi rapporti con gli altri membri della formazione. Da questo punto di vista privilegiato e grazie alla sua esperienza potrebbe aiutarci a comprendere meglio lo stile interpretativo del Quartetto italiano?

Ho sempre colto nello stile interpretativo del Quartetto Italiano il senso di quella che io credo sia l’identità più autentica del quartetto d’archi. Credo che il quartetto d’archi sia una specie di laboratorio di ricerca, impegnato nelle regioni più profonde, segrete e intime dell’uomo. La ricchezza linguistica che si trova nella produzione per quartetto non è altro che una conseguenza di questa natura.

Considerare che la propria attività debba necessariamente avere una connotazione di continua ricerca offre l’occasione di un rapporto non inerte con la tradizione e la storia. In questo, il Quartetto Italiano può essere stato favorito dall’essere nato in una nazione che non è la patria naturale del quartetto d’archi, e non aver ereditato così modi comportamentali divenuti abituali. Ma rimane il fatto che io trovo nelle loro esecuzioni una vitalità, una capacità inventiva e una certa irritualità nella maniera di porsi di fronte all’opera d’arte che non credo siano più l’obiettivo di molti dei quartetti del giorno d’oggi.

Se dovessi cercare di definire il loro modo di suonare, potrei dire che la grande novità del loro stile è stata di rendere il suono un elemento capace di espressività e significato di per sé.


L’amalgama sonoro del Quartetto Italiano ha caratteristiche di grande peculiarità che sono presenti anche nella formazione da Lei guidata. Potrebbe cercare di spiegarci il segreto di questa trasparenza di ordito strumentale?

Non credo di saper spiegare il segreto del suono. Il suono è l’espressione del musicista, com’è la parola per il letterato, è al tempo stesso un bisogno primario ed un elemento complesso, è la musica stessa ed anche l’espressione più individuale dell’interprete.

Non è elemento che sia possibile controllare con l’intelletto, con la ragione o con l’educazione: come diceva Borciani, ”si suona come si è”. Se ha pazienza, le posso raccontare un piccolo ricordo personale che forse può aiutare a capire cosa intendo.

Io ho iniziato a studiare in un’epoca nella quale un registratore in casa era una rarità. Così, ho ascoltato me stesso piuttosto tardi.

Ricordo una Sonatina di Schubert registrata ad un concertino di ragazzi. Certo, ero io, ma c’era qualcosa in quel suono acerbo che non riconoscevo. Mi pareva un misto di pudore e malinconia. Ma quel qualcosa io non l’avevo voluto mettere, non avrei nemmeno saputo come fare, e non mi ero sentito malinconico affatto. Da dove mi era scappato? Da dove era venuto? Non era un problema da poco: in come suonavo c’era qualcosa di cui non ero padrone, e che il suono esprimeva.

Credo che il fascino e il mistero del suono abbiano a che fare con il fascino e il mistero dello sguardo, che esprime senza che sia mosso dalla volontà di farlo. Come lo sguardo, il suono mette in relazione col mondo. Così, il suono di un quartettista dipende sempre dalla relazione col suono dei colleghi.

Con il Quartetto Italiano si supera l’idea di un suono genericamente bello a favore di un suono adatto alle situazioni espressive, quasi generato da queste, e stilisticamente corretto. E’ il suono a condizionare il fraseggio, il passo, le relazioni architettoniche, non il contrario. Qualcosa di simile al considerare la pittura a partire dalla luce oppure a partire dal disegno.

La chiarezza di cui lei parla è un esito in una certa misura involontario della chiarezza interiore.

Purtroppo, il disco conserva solo una parte del suono. L’emozione, l’accensione poetica, la luce che erano nel suono del Quartetto Italiano sono conservate solo dalla memoria di chi ha avuto l’occasione di ascoltarlo dal vivo. Certe velature, certi suoni d’organo sono perduti per sempre.


Quanta importanza ha ancora oggi per Lei il metodo di studio appreso negli anni di tirocinio?

Io ho avuto la fortuna di essere educato ad una scuola. Per scuola intendo un insieme coerente di sensibilità, storia, cultura e tecnica. Borciani è stato un caposcuola, lo è stato come violinista di quartetto ancor prima che come insegnante. Altra cosa è lo strumentismo, pur brillante. In questo senso la scuola è uno strumento, non un confine, in continua evoluzione, alimentato dalle proprie esperienze individuali. Certo, non ho mai sentito il bisogno di esprimere me stesso andando contro la mia scuola.

Quanto all’artigianato quartettististico – ed anche violinistico - vero e proprio, ho imparato a considerare che tecnica ed espressione musicale sono un tutt’uno. Il lavoro di preparazione, quello che noi chiamiamo diteggiare e segnar le arcate, indirizza la nostra futura interpretazione. Ciò è ancor più vero per un complesso che non per un solista. Dunque, deve essere compiuto consapevolmente, non limitandosi ad una risoluzione comoda delle difficoltà tecniche. Ciò che forse non è noto a tutti è che sugli strumenti ad arco la stessa frase può essere suonata in molti modi – su corde diverse, in diversi punti dell’arco, con infinite sfumature di vibrato etc. Un’interpretazione nasce dal compiere queste scelte.


Qual’è il consiglio “di vita” offertole dal Maestro Borciani nel momento in cui Lei gli manifestò la volontà di dedicarsi alla carriera di musicista da camera?

Credo sia stato il palpabile amore, nonostante tutte le difficoltà, che aveva per ciò che faceva, la sensazione che già il solo poterlo fare fosse un privilegio. Ma non credo sia venuto nel momento in cui ho cercato di fare davvero il violinista: forse proprio questa sensazione è stata uno dei motivi che mi hanno spinto a continuare lo studio del violino, amandolo sempre, e poi a costituire un quartetto.


Sir Adrian Boult affermava di insegnare ai propri allievi semplicemente ciò che aveva appreso dal suo maestro Artur Nikisch. Lei oggi insegna nello stesso Conservatorio del suo maestro, si può parlare anche nel suo caso di una tradizione che si perpetua?

Mi auguro di sì, questo è il mio desiderio. Perché, come ho spiegato prima, non avverto come un limite alla propria individualità il sentirsi parte di una tradizione, e perché credo profondamente che un insegnante semplicemente accompagni il proprio allievo ma non abbia autentici meriti nei suoi successi. Sono certo di aver preso questo modo di pensare dal mio maestro, che sempre parlava al plurale – abbiamo studiato, abbiamo preparato - anche di fronte ai piccoli fallimenti attraverso i quali quasi inevitabilmente un ragazzo deve passare.

Ma parlo di tradizione viva, che non si perpetua e non si cristallizza ma continuamente si rinnova. Io cerco di offrire degli strumenti di lavoro ai miei allievi, credo di trasmettere gli attrezzi che ho ricevuto ma cerco di essere buon allievo del mio maestro nell’usare quegli attrezzi con fantasia, cercando ragioni autentiche che possano eventualmente portarmi a forgiarne di nuovi. Ho sempre pensato che in questo risieda una delle ragioni più profonde della fedeltà all’insegnamento ricevuto. E anch’io mi emoziono nel vedere i miei allievi rendersi indipendenti e andare da soli incontro alla propria vita.


Riccardo Cassani