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Quartetto Italiano - The Early Recording (1946-1952). Interpreti da leggenda

Paragon, Profili in musica - n. 1-2009

Cofanetto 7 CD


Mi sorprende che siano passati tanti anni dall’ultimo concerto del Quartetto Italiano. Ancora adesso ho la sensazione di ascoltare un complesso del presente. Parlo di un presente tutto mio, naturalmente; forse altri, di età e formazione diversa, non la penserebbero come me. Gli artisti sanno cogliere qualcosa del tempo che attraversano e, a volte, lo usano per piegarne la traiettoria. L’epoca del Quartetto Italiano è il passato che ci ha formato e che ancora agisce nel profondo della nostra coscienza, per rivoli che spesso ci sono ignoti. È un passato, io credo, che vale la pena di conoscere.


La storia del Quartetto Italiano sono tante storie tutte insieme, un poco fiaba, un poco storia esemplare, un poco dramma, un poco felice e un poco no, come sono tutte le storie, che accadono inevitabilmente senza un perché.

La fiaba è agli inizi: all’indomani della seconda guerra mondiale quattro ragazzi formarono un quartetto e in pochi mesi diventarono famosi. Da subito raccolsero un entusiasmo che traboccava le ragioni della musica. La loro commovente gioventù, la ricerca di una purezza ideale, ne fecero un simbolo della rinascita e della ricostruzione dopo la guerra. Forse, contò anche l’essere in quattro e non uno solo, riuniti in quella specie di repubblica ideale che è il quartetto d’archi: in loro si poteva specchiare un popolo ferito e desideroso di riunirsi per ricostruire tutti insieme quel che la guerra aveva distrutto.

Ho potuto ascoltare il Quartetto Italiano solo molti anni più tardi, ma ho ben presente il sentimento di riconoscenza, quasi di protezione, che il pubblico aveva per loro, una riconoscenza che fu ricambiata con l’impegno. Insegnarono, considerandolo un dovere. In una bella intervista, data a Sergio Andreoni e pubblicata su Musica nel 1984, Borciani disse: “Considero uno dei più gratificanti successi della mia vita aver portato brillantemente al diploma, nonostante i miei impegni artistici, più di una ventina di giovani violinisti”. Quanti degli artisti importanti che l’Italia ha avuto e ha, potrebbero dire altrettanto? Successi, non semplici soddisfazioni: Borciani parla dell’insegnamento come di un impegno centrale della propria esistenza, un impegno profuso, voglio aggiungere, nella scuola pubblica. E nemmeno l’enorme numero di concerti li distolse dalla coscienza civile. Rifiutarono, ad esempio, il discutibile sistema di allora delle sovvenzioni statali, e parteciparono alla gloriosa stagione dei Concerti per i lavoratori e gli studenti del Teatro alla Scala e di Musica/Realtà a Reggio Emilia, insieme ad artisti come Pollini, Claudio Abbado, Accardo e il Trio di Trieste.

Il dramma è alla conclusione. Dopo trentacinque anni di attività il Quartetto Italiano si sciolse, improvvisamente. Verso la fine del 1977 una malattia di Farulli aveva interrotto i concerti. D’un tratto ci si accorse che nel quartetto c’erano contrasti. Dopo qualche mese e molte polemiche Farulli venne sostituito da Asciolla, una sostituzione che doveva essere temporanea ma che in breve divenne definitiva. Poi, Asciolla piantò tutti in asso, e gli impegni a venire furono definitivamente cancellati. Non si poteva credere ad una fine così triste. La complicata e dolorosa vicenda dei contrasti fino allo scioglimento impressionò tanto da ispirare un film, “Il Quartetto Basileus”. Era stata una vicenda privata, ma nelle difficoltà tutte umane di questo celebre complesso si provò a leggere qualcosa dell’epoca che ne era stata teatro, e delle sue amarezze. La ricostruzione, col bagaglio di speranze, di idealità e illusioni che aveva con sé, era finita; altri fantasmi, altre inquietudini abitavano la contemporaneità.


Com’è noto, Paolo Borciani, Elisa Pegreffi, Lionello Forzanti e Franco Rossi si ritrovarono a guerra finita in una data precisa, il 20 agosto 1945 a Reggio Emilia. Erano giovanissimi, poco più che ventenni. L’unica esperienza comune era stata a Siena, ai corsi dell’Accademia Chigiana nel 1942.

Chissà perché, pensarono di formare un quartetto: lo si considerava cosa da persone mature, in Italia non ce n’era tradizione e tra tutti i mestieri, in una nazione distrutta dalla guerra, non poteva essere il più sicuro. D’altra parte, non discendere da una genealogia nazionale, com’era ed è tuttora per i quartetti di cultura tedesca, o boema, o francese e così via, permise loro di trovare liberamente una propria maniera di suonare senza dover fare i conti con consuetudini rese automatiche dal tempo. Con tutta naturalezza colsero una maniera nuova di fare quartetto.

La novità era nell’idea di un organismo continuamente messo in moto dalle proprie relazioni interne, relazioni che si compiono sul terreno sottile dei rapporti di sonorità. Il suono è per il Quartetto Italiano la radice significante della musica, l’elemento centrale della loro poetica. È la sua natura espressiva, la sua consistenza, dall’evanescenza di una velatura fino alla massima concentrazione, a comandare e muovere il fraseggio nella continua mutevolezza dei rapporti tra le voci. Per inclinazione, il loro suono aveva un’accensione intima e un colore, questo sì, italiano, di una bellezza che non ho più sentito. Ma la sua vera dote era nell’avere un significato.

Già al tempo si notò come lo spettro dinamico e timbrico del Quartetto Italiano fosse particolarmente ricco. Purtroppo, l’ascolto discografico è per il Quartetto Italiano davvero penalizzante perché nemmeno la tecnica di registrazione più sofisticata sa restituire le più sottili sfumature. Alcune sonorità emozionanti sopravvivono solo nel ricordo, prima fra tutte quell’impressionante suono d’organo, senza vibrato, con le quattro voci perfettamente udibili ed equilibrate, legate tra loro fin nell’intimo, che solo loro hanno saputo immaginare e realizzare.


Del Quartetto Italiano conserviamo memoria soprattutto grazie alle numerose incisioni realizzate per la Philips a partire dal 1965. Sono le esecuzioni del complesso ormai celebre e nel pieno della maturità. Prima che per la Philips, il Quartetto Italiano aveva registrato per la Telefunken nel 1946, per la Decca dal 1947 al 1952, per la Columbia dal 1953 al 1959, e per Concert Hall nel 1965. Le registrazioni raccolte in questa pubblicazione sono le prime, quelle per la Telefunken e per la Decca, con l’aggiunta della più antica registrazione RAI sopravvissuta. Narrano di un capitolo decisivo, forse il più interessante ai nostri occhi, che va dall’esordio alla consacrazione, avvenuta con il famoso concerto di New York del 1951, passando per la sostituzione della viola, da Forzanti a Farulli, fino alla reazione alla crisi provocata dall’incontro con Furtwängler, e prima d’oggi si potevano dir perdute.

Sono registrazioni di un’epoca ancora pionieristica, ma sorprendentemente buone. Nel riproporle si è voluto conservare, per quanto possibile, il suono originale. Il suono delle registrazioni deve essere approvato dall’interprete, che indirizza a suo gusto il lavoro dei tecnici, e si è notato quanto renda effettivamente giustizia alle esecuzioni: un suono più morbido sarebbe stato meno leggibile, meno fedele a sottigliezze che non possono essere perdute. Ben volentieri mi assumo la mia parte di responsabilità nelle scelte compiute, tutte in favore degli interpreti e della documentazione della loro arte.


Non ci volle molto a fare del Quartetto Italiano – allora Nuovo Quartetto Italiano - un complesso di livello internazionale: alla fine del 1946, a poco più di un anno dal debutto, aveva già tenuto 49 concerti, suonato in diretta a Radio Lugano e alla RAI, era stato invitato all’estero, in Svizzera, e alla Società del Quartetto di Milano, e aveva inciso il primo disco. Suonava a memoria, anche in sala di incisione, e il suo repertorio contava già più di dieci pezzi, tra cui diverse opere del Novecento studiate su parti copiate a mano da papà Pegreffi.

In sala d’incisione entra il 14 marzo 1946, appena quattro mesi dopo il debutto, per registrare in 78 giri il Quartetto di Debussy e una Gavotta di Vinci. Il disco è completato in tre sessioni, l’ultima il 4 maggio, ed è l’unico con Lionello Forzanti alla viola.

Il Quartetto op.10 di Debussy è l’opera attorno alla quale il Quartetto Italiano si è riunito. Era stato studiato a Siena nel 1942 e suonato nel concerto del debutto, a Carpi nel 1945. Nel corso del tempo fu inciso altre due volte, prima per la Columbia nel 1954 e poi per la Philips nel 1965.

Non avevo mai avuto occasione di ascoltare questa incisione. Non potevo non andare con la mente alle successive, in particolare a quella per la Philips, che è veramente celeberrima, col timore di trovare questa ancora acerba. Ho annotato scrupolosamente la cronologia degli avvenimenti proprio per mostrare quanto straordinario sia sentire un quartetto con solo pochi mesi di vita suonare a questo modo. Non è un’esecuzione ingenua, è già quella esecuzione che si è conquistata l’ammirazione incondizionata dei pubblici di tutto il mondo; chi suona non è un quartetto di ragazzi ma un grande quartetto fatto e finito, capace di conquistare il proprio status di grande interprete verrebbe da dire all’improvviso, e si può ben comprendere la meraviglia che suscitò al suo apparire. Rispetto all’ultima che abbiamo nella memoria, è un’esecuzione più volitiva e drammatica; il tempo le regalerà anche abbandono. C’è slancio, un suono affascinante, forse manca solo quella sensazione di dominio supremo della forma a cui siamo stati abituati in seguito, ma credo dipenda più che altro dalla limitatezza del 78 giri, che non sempre poteva contenere un intero movimento in una sola facciata e che in sede di registrazione costringeva a fermarsi e ripartire.

Ero molto curioso di sentire come suonasse Forzanti. La mia impressione è che avesse un bellissimo e nobile suono, forse più violinistico che violistico, più chiaro ed elegiaco di quello di Farulli, ma perfettamente fuso col suono degli altri. È ammirevole l’agilità con cui Forzanti esegue la figura che apre il secondo movimento. Con Farulli, il suono del quartetto acquisterà in compattezza e profondità.

A completamento, sull’ottava facciata c’è una Gavotta di Vinci che era stata il bis del concerto di debutto, e che è suonata con una freschezza incantevole. Varrebbe l'ascolto anche solo per quel fraseggio a rallentare e poi riprendere che è al minuto 1:30 e per il suono incantato della frase che segue, per i quali ogni considerazione stilistica non vale, tanto è lieve e magico l'effetto che producono. In poche e semplici battute c’è una lezione: bellezza di suono, magia di colori, fantasia e naturalezza nel fraseggio. La Gavotta non fu mai più registrata.


Nel 1947 Piero Farulli sostituisce Forzanti, e inizia il rapporto con la Decca. In settembre il quartetto è a Londra per registrare l’op.64/6 di Haydn, una registrazione che non verrà pubblicata e sarà rifatta l’anno seguente. Il 15 dicembre il quartetto esegue in diretta radiofonica l’op.130 di Beethoven dall’Accademia Filarmonica Romana, presente in sala Otto Klemperer, un’esecuzione purtroppo non conservata negli archivi della RAI.


Nel 1948 i concerti sono 63, di cui la maggior parte all’estero. Il quartetto visita Inghilterra, Scozia, Spagna e Francia, con grandi successi. Il concerto parigino alla Salle Gaveau è salutato da 14 chiamate e 3 bis, come annota papà Pegreffi in un album che raccoglie programmi, articoli di giornale e cartoline. Al Festival di Aix-en-Provence, Borciani si esibisce in un recital mozartiano con Clara Haskil.

In novembre il quartetto è di nuovo a Londra, ai West Hampstead Studios, per registrare l’op.8/1 di Boccherini e l’op.64/6 di Haydn. Già si avverte che il suono è cambiato, la presenza di Farulli sembra avergli dato più consistenza e compattezza; è un suono concepito più come una sovrapposizione, una prospettiva di linee, piuttosto che come una fusione. Anche il fraseggio sembra aver maggiore continuità, si potrebbe dire maggior determinazione; ho idea che con Forzanti sarebbe potuto evolvere in direzione di un estro più capriccioso.

L’esecuzione del Quartetto op.8/1 G 165 di Boccherini è una meraviglia di suono italiano. Il secondo movimento è di una bellezza angelica, abbacinante, ed è meraviglioso il colore all'attacco del terzo movimento, come in una luce soffusa, un tratto che resterà anche nell’esecuzione per la Philips del 1976.

L’inizio del Quartetto op.64/6 Hob III:64 di Haydn mi pare un po’ affrettato. È l’unico stacco di tempo non del tutto convincente che io ricordi nella loro produzione discografica, ma la sensazione scompare strada facendo, e già nello sviluppo del primo movimento si nota quella maniera di accompagnare che è in verità una maniera di condurre, suscitare la linea di canto, così caratteristica del Quartetto Italiano. Bellissimi e brillanti i colpi d’arco e splendidi i sovracuti di Borciani nel Trio. In seguito l’op.64/6 fu registrato solo dal vivo, per la RAI, nel 1970.


Nel 1949 i concerti sono ormai più di 100 e alle nazioni già visitate si aggiungono Svezia, Cecoslovacchia, Danimarca, Norvegia e Olanda. In Italia suonano alla Scala per la Società del Quartetto. In novembre sono nuovamente a Londra per registrare l’op.59/3 di Beethoven e il Quartettsatz di Schubert.

Il Quartetto op.59/3 di Beethoven non è così straordinario come l'op.59/1 che verrà di lì a poco, ma l’impressione è che il suono del complesso sia, solo un anno più tardi, ancor più compatto. Il secondo movimento non ha ancora quella magica sensazione di galleggiamento che avrà nella successiva versione Philips del 1973, ma tutta l’esecuzione ha nitore e chiarezza e una lodevole rinuncia a un uso effettistico della velocità, e gli interventi di Farulli hanno quel suono limpido e consistente, un autentico suono di viola, che ancor oggi ricordiamo.

Il Quartettsatz D.703 di Schubert fu inciso con irrisoria facilità: un’unica presa per ogni facciata. È staccato a quel modo così discusso, un poco più lento di quel che non si senta da altri, che il Quartetto Italiano ha mantenuto anche in seguito. È una scelta che lo restituisce alla sua natura di primo movimento di un quartetto incompiuto, mentre spesso lo si sente come fosse un pezzo brillante. In futuro, alcuni colpi d’arco balzati saranno eseguiti alla corda, per un controllo del colore e del carattere ancor più sottile, ma il tono è già quello della grande interpretazione, senza indulgenze e senza esteriorità, e con una affascinante e dolente cantabilità. Fu registrato altre due volte per la Philips, nel 1965 e nel 1979, quest’ultima con Dino Asciolla.


Nel 1950, ancora a novembre, il Quartetto Italiano è di nuovo a Londra per registrare l’op.41/2 di Schumann e il Quartetto di Verdi. Ci arriva dopo un giro in Svezia, Norvegia e Danimarca in ottobre, due registrazioni alla RAI il 17 e 31 in cui esegue un Quartetto di Giardini, uno di Boccherini e uno di Haydn all’interno di un ciclo di trasmissioni sul quartetto d’archi nel ‘700 curate da Remo Giazotto, un concerto a Milano a novembre per la Società del Quartetto con l’op.77/1 di Haydn, il Quartetto n.12 di Milhaud e l’op.130 di Beethoven e uno a Venezia con lo stesso programma, concerti in Inghilterra, a Cambridge e Oxford, con Haydn, l’op.168 di Schubert e Verdi, trasmissioni radio, presumibilmente per la BBC, il 24 e 25, altri concerti in Olanda prima di tornare alla RAI per una nuova puntata del ciclo di Giazotto, in cui esegue Haydn 64/6 e 77/1. Ottobre e novembre soltanto; questo era il ritmo degli impegni, un ritmo che sarebbe ancora cresciuto negli anni a venire.

Il Quartetto op.41/2 di Schumann è registrato in “prima mondiale”. Per strano che possa sembrare, nessun quartetto l’aveva inciso fino ad allora. È un’interpretazione splendida e, a mio parere, essenziale per capire gli sviluppi futuri. Il suono sta mutando, ha ormai quel respiro e quell'emozione che ricordiamo ancor oggi, in aggiunta alla lucentezza e purezza che aveva avuto fin dall’inizio, e il fraseggio sta acquistando una straordinaria libertà, e una maniera di sorridere, uno slancio leggero e pieno di sottintesi che fino a qui non avevo notato. Quella maniera di suonare che ancora negli anni settanta pareva proiettata nel futuro era già stata conquistata, dopo solo cinque anni di attività, ed è una maniera che per realizzarsi si è costruita una tecnica di diteggiatura e di archeggio tutta sua, nuova, ancor oggi discussa. Così, per evitare portamenti, Borciani suona il terzo movimento senza i tradizionali riferimenti delle posizioni, facendo correre la mano sinistra liberamente come corre la mano di un pianista sulla tastiera. Anche il vibrato è nuovo: ora è parte integrante del suono, non più una sovrastruttura, e concorre a definirne luce e consistenza. Il secondo movimento è suonato con straordinaria inventiva di suoni, terzo e quarto con brio contagioso. Fu registrato una seconda volta per la Philips nel 1970.

L’incisione del Quartetto di Verdi è una delle più celebri del Quartetto Italiano, e da sempre è considerata un riferimento assoluto. È un’opera genialissima, suonata qui con una freschezza, musicale e tecnica, e un’ironia che non hanno paragoni. L’ultimo movimento è una specie di gioco di prestigio quartettistico, fatto di incastri fulminei e colpi d’arco brillantissimi. Ho sentito più di una volta Borciani ricordare con divertito spavento del momento in cui si dovette inciderlo “sulle cere”, la tecnica di registrazione di allora, che non consentiva tagli né riascolti: si doveva decidere se licenziare il disco alla cieca, senza poter controllare ciò che era stato registrato. È l’unica incisione discografica del Quartetto di Verdi, la RAI ne conserva un’esecuzione del 1960.


Il 1951 è un anno cruciale: è l’anno dell’incontro con Wilhelm Furtwängler e della prima tournée in Canada e Stati Uniti. L’oceano è varcato sul Queen Elizabeth, il primo concerto a Montreal il 14 ottobre e l’ultimo a New York il 15 dicembre. A New York incontrano Toscanini che dice loro “suonate come angeli” e il 4 novembre tengono il concerto che li consacrerà definitivamente. Scrive l’illustre critico Virgil Thomson: “non ero preparato alla perfezione dimostrata da questi giovani in cui preparazione tecnica e passione si eguagliano. Cinque anni [li aveva ascoltati già nel 1946] hanno rifinito e trasformato il gruppo nel quartetto d’archi più bello, senza ombra di dubbio, che il nostro secolo abbia conosciuto. […] Perfezione è l’unica parola che può descrivere questo modo di suonare, perfezione di un tale tipo e di un tale livello che nessun amante del quartetto e nessun musicista di quartetto ha mai udito prima”. La critica ebbe enorme eco nel mondo; già all’indomani giornalisti e fotografi erano ad aspettarli nella hall dell’albergo, come divi del cinema.

Non ci sono incisioni discografiche nel 1951, ma c’è una registrazione per la RAI della Sonata a Quattro in sol maggiore di Tartini. Si sentono delle voci in sottofondo, ma la qualità di questo piccolo gioiello vale qualsiasi sacrificio. L'esecuzione è aerea, fantasiosa, mobile, luminosa, con trilli bellissimi, un esempio veramente ideale di brillantezza e fantasia, col più splendido suono italiano che si possa immaginare. Bellissimo anche il secondo tempo, cantato a fior di labbra. Che meraviglia doveva essere ascoltarli dal vivo a quell’epoca e in questo repertorio, del tutto dimenticato. Anche in seguito, questa Sonata non fu mai incisa in disco.

L’incontro con Furtwängler è una tappa fondamentale nella biografia del quartetto. Avviene a Salisburgo, il grande direttore è ad ascoltare il loro concerto. Cenano, poi suonano il Quintetto di Brahms e rimangono a lungo a discutere di musica. Furtwängler conosceva così bene i Quartetti di Beethoven da poterli suonare a memoria al pianoforte, e suggerisce loro alcune soluzioni interpretative. Due possiamo ascoltarle in questi dischi: la chiusa dell’op.18/6 di Beethoven, in leggero accelerando, e lo stacco di tempo del Thème russe, il movimento conclusivo dell’op.59/1. Ma è l’esperienza viva del far musica insieme che li sconvolge, un’esperienza di un’intensità incandescente. Furtwängler li spinge a suonare come non avevano mai fatto, con una libertà che non si erano mai concessa. Alla fine non si riconoscono, e si sentono costretti a una riflessione profonda che loro stessi chiameranno crisi.

Questa pubblicazione raccoglie tutte le registrazioni antecedenti e le prime seguenti questo incontro, e documenta quindi questo momento cruciale.

Non mi pare di notare, anche pensando alle esecuzioni di molto posteriori, un cambiamento sostanziale nella linea della loro evoluzione, almeno così come loro stessi lo hanno descritto. Al contrario, mi ha sorpreso riconoscere già nelle prime incisioni alcuni tratti della loro maniera matura via via più evidenti. Il secondo Quartetto di Schumann è un buon esempio: è suonato con una libertà straordinaria, ha già quel suono ricco di risonanze, quell’uso del vibrato così particolare ed espressivo che saranno nelle future esecuzioni di tutti i grandi di lingua tedesca. La mia impressione è che Furtwängler abbia in fondo mostrato loro ciò che già stavano cercando, e semmai li abbia aiutati ad avere il coraggio di andare fino in fondo a ciò che credevano. Ma non credo che senza quell’incontro non avremmo avuto il Quartetto Italiano così come lo abbiamo conosciuto.


Nel 1952 il quartetto incide a Londra per l’ultima volta, in febbraio. È il turno del Quintetto K581 di Mozart col clarinettista Antoine-Pierre de Bavier. È questa l’unica incisione fatta leggendo la musica dagli spartiti.

L’incontro con de Bavier, allievo di Luigi Amodio, ultimo esponente della grande tradizione clarinettistica italiana, risale al 1947. Con Pollini, de Bavier è l’unico musicista con il quale il Quartetto Italiano abbia suonato in concerto, a parte i direttori coi quali ha eseguito opere per quartetto e orchestra, Hermann Scherchen, Bruno Maderna, Ettore Gracis, Nino Sanzogno e Gianpiero Taverna; con Pierre Fournier, Jean-Pierre Rampal e Wilhelm Furtwängler il quartetto ha tenuto esecuzioni private. Quella del Quintetto è un’esecuzione elegante, ma sembra di avvertire una qualche prudenza nel momento decisivo del far musica, quasi che ad essere in cinque non ci si possa fidare del tutto a lasciar accendere la fantasia. Alcuni tempi danno l’impressione di essere un po’ troppo trattenuti, ma la voce del clarinetto è magnifica, ricercatissima e sensuale, e Borciani suona con grandissima bellezza di suono e morbidezza di fraseggio. Il Quintetto non fu più registrato.

Sempre nel 1952, nel mese di luglio, la Decca organizza una impressionante sessione di registrazioni, a Roma presso la sala da concerti dell’Accademia di Santa Cecilia. Le date sono indicate solo approssimativamente da papà Pegreffi in due periodi, dall’1 al 10 e dal 20 al 30, con in mezzo almeno un concerto il 13 ad Aix-en-Provence. La mole di lavoro è da togliere il fiato: vengono registrati due Quartetti di Beethoven, uno di Haydn, due di Schubert, tre di Mozart più l’Adagio e Fuga K546, come sempre a memoria.

Il Quartetto op.77/1 Hob III:81 di Haydn è eseguito con la compattezza, l’equilibrio e la trasparenza del tessuto quartettistico ormai abituali. Tenera e molto poetica la coda del primo movimento, e splendidi il Minuetto, dove i sovracuti di Borciani sono splendenti di luce, e il Trio. Bellissimo, per quanto si tratti solo di un particolare, il modo di eseguire gli accordi. Fu studiato per una tournée americana e non più registrato in futuro.

Il Quartetto K155 di Mozart presenta qualche piccola imperfezione nel montaggio del primo movimento. Siamo ormai all’epoca della registrazione su nastro, che consentiva un lavoro di editing del tipo che intendiamo ancor oggi. Curiosa la scelta di eseguire il ritornello del secondo movimento, dopo aver trascurato quello del primo e in presenza di un terzo movimento così breve, ma è chiaro che il secondo movimento viene colto come il cuore emotivo dell'intera opera, e come tale vengono conservate le sue proporzioni ideali. Il Quartetto fu registrato di nuovo per la Philips nel 1970.

L’Adagio e Fuga K546 ha una grande maestà, e l’Adagio quell’andamento ipnotico, quell’atmosfera stagnante che avrà anche nella versione Philips del 1972, purtroppo mai più ripubblicata, e che rende così vivo l’attacco della Fuga senza bisogno di staccare un tempo troppo rapido.

L’esecuzione del Quartetto K465 di Mozart è veramente magnifica, semplice, emozionata, intensa ed elegante. Il suono del quartetto ha acquisito peso e concentrazione nelle voci centrali. È il suono definitivamente compiuto del Quartetto Italiano. E il modo di accompagnare la coda del secondo movimento è una vera autentica meraviglia di equilibrio e di emozione. Il Quartetto fu registrato di nuovo per la Philips nel 1967.

Il primo movimento del Quartetto K590 di Mozart è straordinario, quasi irridente nella tecnica individuale e quartettistica. Il fraseggio è mobile, l'intonazione perfetta, il suono, di una straordinaria levità e delicatezza, e così il tono generale. Sempre bellissima la voce della viola. Il terzo movimento non ha ancora quello stupore che avrà nella successiva incisione per la Philips del 1972 ed è diverso il modo di eseguire la nota di abbellimento. Non trovo così spontaneo il fraseggio nel passo con due note saltate e due legate al termine della prima parte del movimento conclusivo, per quanto condotto con grande maestria. Forse, ma è un’idea mia, un piccolo segno di stanchezza a dover registrare così tante opere in pochi giorni.

Il Quartetto op.18/6 di Beethoven fu eseguito, insieme all’op.59/1, a New York nella famosa serata cui abbiamo fatto cenno, ed è suonato con sensibilità e brillantezza e insieme grande autorevolezza. Il suono di Borciani nel secondo movimento ha una intima intensità, una bellezza tenera e fragile che ancora ricordiamo. In un passo all'unisono si sente qualcosa di quel famoso e incredibile suono d'organo di cui solo il Quartetto Italiano conosceva il segreto. L'introduzione al quarto movimento è splendida, ha una fissità che fa presagire qualcosa della celebre interpretazione della Canzona dell’op.132. Quando poi il fraseggio si scioglie l'effetto è straordinariamente espressivo. L’op.18/6 fu incisa una seconda volta per la Philips nel 1973.

Come Debussy, anche il Quartetto op.59/1 Beethoven era stato, con il Concertino di Stravinskij e tre pezzi di Corelli, nel programma del concerto di Carpi del 1945. L’esecuzione registrata per la Decca è tutta a linee tese e lunghissime. Il primo movimento è lirico e discorsivo, il suono quartettistico è luminoso e il vibrato lo arricchisce d’aria e di respiro. Il secondo movimento ha un andamento sereno e costante, quasi una costanza interiore. Stupendo il terzo movimento, baricentro emotivo dell'intera composizione. I primi due sono suonati senza enormi contrasti proprio per preservarne il valore. Una meraviglia la frase del cello a 5:38, come viene preparata dal primo violino, come viene condotta dai pizzicati a crescere fino all'apice di 6:31, come viene diluita fino alla modulazione di 6:53, dove il suono di Borciani, di angelica bellezza, ha una commozione addirittura dolorosa, per non parlare di come di nuovo viene mossa la frase dalle catenelle di notine che passano tra tutti gli strumenti, un momento, oltre che di musica come poche volte si è sentito, anche di sopraffina arte quartettistica: niente è fermo, ogni elemento, ogni scambio, respira con la musica. Bellissima anche la coda, un arabesco del primo violino che si risolve in un trillo tenuto. Il quarto movimento è affrontato a velocità supersonica, ma con una chiarezza e brillantezza, e insieme una morbidezza che non avevo mai sentito. Che meraviglia la frase della Pegreffi a 00:40, che si muove con una malinconia quasi ipnotica. Così anche la frase del cello più avanti, quasi ci fosse una comunicazione privilegiata tra loro. Il loro suono ha qualcosa di vissuto, il senso di un passato e di una superiore consapevolezza.

La coda dell'esposizione, da 1:10, un passo quartettistico di grandissima difficoltà, è superata con una brillantezza, uno slancio, una mobilità di fraseggio, una stabilità di intonazione, una fantasia coloristica da restar senza fiato, per non dire di ciò che segue, i colpi d'arco da manuale del violino e i trilli dell'ultima pagina. La maniera di eseguire il quarto movimento chiarisce ed equilibra i primi due, alla luce del ruolo che è dato al terzo. Altri suonano i primi due movimenti con assai più slancio e più contrasti, mancando però il raggiungimento di un equilibrio globale. Questa esecuzione è una lezione di stile: in una composizione di 40' ogni particolare ha il suo millimetrico valore, eppure tutto è suonato con una libertà e un’inventiva che lo rendono emozionante come un'esecuzione dal vivo. Io trovo questa esecuzione superiore anche a quella Philips, del 1974.

L’ultimo CD è dedicato a Schubert, uno degli autori con i quali il Quartetto Italiano ha avuto maggiore affinità. Il primo tempo del Quartetto op.168 D.112 di Schubert è suonato con slancio e libertà di fraseggio e quella sofisticata semplicità che ormai è diventata una cifra interpretativa nota. L'esordio del secondo movimento ha una tinta scura veramente impressionante, un incedere pieno di maestà, e una casta purezza del violino alla seconda idea. Bello e caratteristico il Minuetto, con i violini in ottava nel Trio che sembrano un solo strumento. Leggero e scorrevole il Presto finale.

Il Quartetto op.168 è un quartetto "piccolo" di Schubert, un tempo molto amato dagli esecutori. Il Quartetto Italiano lo suona con lo stesso impegno e lo stesso grado di approfondimento che avrebbe dedicato ad una opera grande. In più, quella loro maniera di suonare, che è insieme libera e logica, sortisce risultati di grande fascino quando incontra, anche in un'opera giovanile com’è questa, nei ritorni ennesimi e nelle infinitesime variazioni - un tratto così tipicamente schubertiano - l'occasione per un ancor più profondo scandaglio. L’op.168 non fu mai più incisa.

Quella del Quartetto op.29 D.804 di Schubert “Rosamunde” è una grande interpretazione. È la prima di tre consegnate al disco, le successive saranno per Concert Hall nel 1965 e per Philips nel 1976, ed è ancora una volta un'interpretazione del tutto compiuta nonostante la giovane età. Il suono di Borciani è il più bello che si possa immaginare, canoviano, un suono pieno di slancio e di fragilità al tempo stesso, casto eppure espressivo, soffice e sospeso, quasi immateriale eppure intenso. Farulli ha moti di accoratezza addirittura in singole note, la Pegreffi conduce lo sviluppo del primo movimento in maniera magistrale, e la ripresa ha un'intensità che forse nemmeno le successive incisioni avranno. Ascoltate come Rossi – un vero incantatore, chi l’ha visto suonare non può dimenticarlo - apre il terzo movimento: mai si era sentito suonare in maniera così semplice e insieme così drammatica. Poi il Minuetto si scioglie in un tema di danza tanto disperato da lasciare il groppo in gola. Il Trio è forse il più bello tra quelli in disco, morbido, sensuale, e insieme caratteristico, con le movenze della danza popolare. Meraviglioso per colore e per levità è il quarto movimento, e che incanto la coda, che si dissolve come un arcobaleno che evapora nell'aria.


Fulvio Luciani


Un ringraziamento a Mario Borciani, Peter Bromley, Susi Davoli, Francesca Zini e Teatro Valli di Reggio Emilia, Nicoletta Geron e Società del Quartetto di Milano, Ugo Martelli, Elio Millevoi, Tully Potter, Angelo Scottini, Luigi Spagnol, Philip Stuart, Pietro Zappalà e Facoltà di Musicologia dell’Università di Pavia, e Paolo Zeccara, che mi hanno fornito moltissime delle informazioni contenute in questo scritto o che hanno avuto la pazienza di controllarle per me. Non tutte hanno trovato spazio, ma tutte mi sono state utili.

Un ringraziamento ideale e del tutto particolare a Paolo Borciani, del quale sono stato allievo, a Elisa Pegreffi e Guido Alberto Borciani, ai quali sono debitore delle tante occasioni che ho avuto di discorrere di musica, di quartetto e di Quartetto Italiano, in tempi anche tanto lontani. Alcuni dei racconti contenuti in questo scritto provengono da quelle conversazioni, gelosamente custodite nella mia memoria.