leggi

 

Quattro Quartetti

Quattro articoli per il Giornale del Quartetto, della Società del Quartetto di Milano: Quartetto Pavel Haas, Quartetto Guarneri, Quartetto Emerson e Quartetto Belcea


Quartetto Pavel Haas

Il debutto di un vincitore di concorso è sempre un caso a sé. Per un verso è uno speciale prolungamento della competizione: si ascolta rimanendo un po’ sulla difensiva, prima di decidere se schierarsi con o contro la giuria. Per un altro verso è una nascita: un nuovo interprete si offre al pubblico e può nascerne una vicenda duratura, per motivi che possono non essere gli stessi che avevano portato alla vittoria. Vincere è importante, ma è solo l’inizio.

Ho avuto l’onore di essere chiamato nella giuria del Concorso Paolo Borciani e sono ben lieto di presentare al pubblico della Società del Quartetto il vincitore di questo premio prestigioso, il Quartetto Pavel Haas.


Per chi in Italia si occupi di quartetto, e in generale di musica strumentale, la ricerca anche spregiudicata del nuovo è condizione abituale, quasi indotta dalle circostanze. L’Italia è, per il quartetto d’archi, una periferia, nonostante Boccherini. In quanto periferia, in Italia e in generale nei paesi non di lingua tedesca, la responsabilità della storia è meno paralizzante, si ha il vantaggio di un colpo d’occhio come fosse in prospettiva, e non si ha da pagar pegno alla consuetudine. Con un’approssimazione che vorrete perdonarmi, in questo - ma non solo - fu la grandezza del Quartetto Italiano: nella capacità di osare.


Nel giro di pochi anni l’universo della musica è cambiato, e anche in fretta.

E’ cambiata l’idea del suono e di ciò che il suono esprime, sono andate perdute scuole e identità nazionali, è cambiata la percezione del ritmo e della velocità, è cambiato il concetto stesso di bellezza.

Spesso, oggi, bellezza è pura energia, a volte anche violenza; certe esecuzioni di oggi risulterebbero incomprensibili se solo fossero valutate col metro di qualche decennio fa.


Il Quartetto Pavel Haas, giovanissimo, proviene da un’altra periferia, la Repubblica Ceka, non so quanto più vicina al cuore dell’Impero, e vi affonda forti radici. Nel loro modo di suonare si legge il sedimento della storia di un popolo. Mi perdoneranno gli Haas se oggi non sono capace d’altro che di intuire un modello ideale - forse troppo ovvio - nel Quartetto Smetana. Con uno dei membri di quel grande quartetto, il violista Milan Skampa, gli Haas hanno lavorato.

Essi possiedono un’eleganza naturale, una dote che è un dono: come certi predestinati eleganti in tutto, nei modi, nel gesto, nel sorriso, addirittura, quando accade, nell’impaccio, così sono gli Haas, eleganti nel suono, nel fraseggio, nell’equilibrio tra le voci, nella velocità, in cui sanno tuffarsi con vertiginosa leggerezza. Il loro sentire è profondo e autentico, ed è restituito con tanta naturalezza e semplicità da non poter non essere condiviso.


Il programma che il Quartetto Pavel Haas presenterà il 15 novembre in Conservatorio comprende un pezzo che il pubblico della Società del Quartetto crede di conoscere: il Quartetto n.2 di Janáček “Lettere intime” - in origine “Lettere d’amore” -, che il Quartetto Pavel Haas esegue in una versione personale che al Concorso ha molto interessato e che tiene conto delle centinaia di differenze esistenti tra fonti autografe e prima edizione a stampa. Dal loro lavoro di revisione nasce, in qualche misura, un pezzo nuovo. Completano il programma il raro e prezioso Quartetto n.2 di Smetana e il Quartetto Op.59 n.3 di Beethoven, che è stato il temibile pezzo d’obbligo al Concorso Paolo Borciani.

Tradizione, ricerca. La musica per quartetto è musica complessa e a suo modo tutta sperimentale; per restituirla degnamente è necessaria una comprensione profonda dei suoi significati. La rappresentazione di questa comprensione può essere, come nel caso del Quartetto Pavel Haas, un fatto di affascinante naturalezza. Ascoltate, e sappiatemi dire.



Quartetto Guarneri

Il Quartetto Guarneri nasce nel 1964, una generazione dopo il secondo dopoguerra. I complessi nati una ventina d’anni prima, l’Amadeus, l’Italiano, il Juilliard, il Borodin, abitavano un mondo che poco a poco imparava a fidarsi della pace ritrovata. Erano giovani - fino ad allora fare quartetto erano stato cosa da musicisti maturi -, non avevano maestri e nel loro entusiasmo si potevano cogliere le positive aspirazioni di un’epoca. Furono amati fino a diventare simboli della rinascita, come fu per il Quartetto Italiano.

Solo una ventina d’anni più tardi lo scenario che accoglie i Guarneri, contemporanei per un lungo tratto e non eredi di quei complessi, è del tutto diverso. In un mondo che voleva guardare solo avanti, dimenticare il passato e per il quale il nuovo era un valore di per sé i quartetti del dopoguerra aveva con naturalezza e in solitudine inventato una nuova maniera di suonare. I membri del Guarneri hanno invece maestri illustri – un nome per tutti, Pablo Casals -, e il loro sguardo torna a rivolgersi al passato, un passato anche molto lontano. La loro modernità risiede nella consapevolezza di ciò che è stato, la tradizione è per loro una rinnovata conquista.


Se i quartetti del dopoguerra erano stati grandi soprattutto nel repertorio maggiore, il Guarneri sa guardare anche poco discosto dalle grandi opere, in un ambito più riservato e discreto, e cogliere fioriture preziose. Con significativo orgoglio rivendica nelle proprie biografie di aver suonato tutti i Quartetti di Arriaga, piccoli capolavori a margine del grande repertorio.

Il programma scelto per la Società del Quartetto è in questo senso assai significativo, a partire dall’op.50 n.2 di Haydn, uno dei suoi meno ascoltati e più sorprendenti. Già l’apertura è straordinaria, una danza in tre un po’ incerta, come di un ballerino con una giacca troppo larga sulle spalle, che appena riesce ad avviarsi si interrompe e poi continua a procedere tra slanci e improvvise fermate. C’è in tutto il Quartetto una padronanza assoluta della scrittura, una gioia dello scrivere, un’ironia e una ricchezza di contenuti che lo rendono, a mio modo di vedere, un’opera straordinaria.

Dei due Quartetti di Janácek il primo, “Sonata a Kreutzer”, ispirato a Tolstoj, è forse il meno noto. Più amato è il secondo e autobiografico “Lettere intime”. Entrambi i Quartetti trattano di rapporti di coppia ed è curioso che per Janácek sia il quartetto d’archi il teatro dove inscenare drammi su questo tema.

Il Quartetto op.131 di Beethoven è, nella storia, il più nuovo, sfuggente, incredibile organismo destinato al quartetto d’archi. Tra gli ultimi Quartetti beethoveniani è quello il cui carattere è meno definibile e il cui linguaggio senz’altro più avanzato, e ciò lo rende ogni volta una scelta coraggiosa per chi decida di suonarlo.

Molto inchiostro è stato versato per questo Quartetto ma desidero suggerire, tra gli infiniti, ancora un punto di vista. La figura che apre lo struggente primo numero – il Quartetto non è diviso in movimenti! - è presa da un’opera della prima gioventù, il Trio in do minore op. 9 n.3. Che significato può avere il fatto che proprio la più avveniristica delle opere beethoveniane nasca da un materiale di circa trent’anni prima?


Cosa può spingere quattro persone a spendere la propria vita in quartetto, quale forza può essere così potente? Per ben trentasette anni la formazione del Quartetto Guarneri è stata la stessa; dal 2001 il violoncellista David Soyer ha lasciato il posto a Peter Wiley. C’è nella musica per quartetto una grande ricchezza, e una grande occasione è offerta dal poter accompagnare il cammino di chi per una vita cerca di avvicinarla. Per questo è preziosa una nuova visita del Quartetto Guarneri.



Quartetto Emerson

Delle numerose maniere di intendere il quartetto d’archi il Quartetto Emerson rappresenta forse la più contemporanea, quella più vicina allo spirito dell’epoca presente.

Ho un ricordo ancora vivo dei loro primi concerti a Milano e del mio stupore al veder alternare i due violinisti nel ruolo di leader, due violinisti veramente diversi, col risultato che quello che si sentiva era non uno ma due quartetti. Quella che all’inizio a me sembrava una bravata, col tempo è diventato quasi un marchio di fabbrica.

Più tardi gli Emerson hanno lasciato le sedie e abbiamo cominciato a vederli suonare all’impiedi; questo, lo confesso, ho fatto un po’ fatica ad accettarlo.

Nell’uno e nell’altro caso non so dire se siano stati davvero i primi, ma ho l’impressione che lo siano stati tra i quartetti di alto livello internazionale, e che  abbiano fatto scuola.


Col tempo gli Emerson non hanno perso il gusto della prestazione sensazionale: hanno girato il mondo suonando i sei Quartetti di Bartók nello stesso giorno, un impegno tecnico ed emotivo che pareva non essere affrontabile, e hanno inciso l’Ottetto di Mendelssohn da soli, suonando ognuno due parti, ma avendo l’accortezza di registrarle con due diversi strumenti. Quest’ultimo è stato con ogni evidenza un gioco, e benedetto sia chi da adulto ha ancora il coraggio di giocare senza vergognarsene. Oggi, però, al leggere con stupore che sono già trascorsi trent’anni di carriera, e al vedere i loro visi un poco segnati dal tempo, credo di aver capito ciò che per anni non mi aveva convinto.


Credo, semplicemente, che l’Emerson guardi all’universo del quartetto d’archi da una prospettiva diversa da quella a cui sono stato abituato. Per cercare di capire, come sempre, il segreto è stato l’ascoltare il loro suono. Il suono è la materia stessa della musica ed anche la più rivelatrice, perché è quella sulla quale i musicisti hanno meno il controllo dell’intelletto e della volontà.

Quello degli Emerson è un atteggiamento che tende a render semplici le cose. A me pare che la loro maniera di sommarsi sia di mettere ognuno a disposizione il proprio meglio, in tutta spontaneità, senza preoccuparsi di sbozzarlo, di educarlo, perché meglio si combini con l’individualità degli altri.

La loro è una cosiddetta semplicità, in realtà è una altissima raffinatezza, che gli è permessa dal grande talento che hanno e dall’educazione di primissimo ordine che hanno ricevuto. Ma è, credo, anche un segno dei tempi, nel non cercare una sacralità e una purezza ideale a cui conformare il proprio impegno, e nel lasciare che le cose avvengano in un certo senso da sé, offrendo a questo processo, con generosità, tutto il proprio io. In altri tempi non sarebbe potuto esistere un quartetto mosso da una simile poetica. E che sia un qualcosa che appartiene pienamente al presente ci è confermato dall’enorme successo che l’Emerson ha ottenuto. Senza perdere in simpatia, come si capisce ad incontrare lo sguardo da simpatico guascone del violoncellista, uno sguardo ancora pieno di passione e di attese.



Quartetto Belcea

Con l’addio del Quartetto Berg – che suonerà ancora per una sola stagione e sarà ospite della Società del Quartetto un’ultima volta nel prossimo febbraio – sta per chiudersi un’epoca.

Non si tratta di un semplice cambio di generazione: ho l’impressione che con il Berg stia per perdersi una maniera di intendere e “fare quartetto”; non credo potrebbe nascerne, oggi, uno nuovo. Nei giovani c’è un’attitudine diversa, che nasce da una sensibilità cui tutti partecipiamo nel presente.


L’approccio al quartetto d’archi ha sempre avuto una certa sacralità, tanto che per lungo tempo è stato questione da persone mature.

Solo nel secondo dopoguerra sono nate le prime formazioni giovani, e appena qualche decennio fa complessi come il Kronos Quartet o il Turtle Island Quartet hanno mostrato che il quartetto poteva avere anche un’anima giocosa. Nascosto dietro l’elevatezza, qualche volta c’era un sospetto di seriosità. Una volta messi in pari i conti con la storia e con la tradizione, ci si poteva concedere il puro piacere della musica, anche la più sperimentale.


Il Quartetto Belcea, dal nome del primo violino Corina Belcea, è uno dei più brillanti tra i quartetti giovani. In soli tredici anni di vita ha raccolto premi, una discografia già ricca e svolto un’attività internazionale di rilievo, con qualche tratto distintivo assai interessante, com’è l’aver scelto di collaborare con cantanti per progetti assai inventivi.

Formatosi nel 1994 al Royal College of Music di Londra sotto la guida del Quartetto Chilingirian, di Simon Rowland-Jones e del Quartetto Amadeus, dal 1997 al 2000 si è perfezionato con il Quartetto Alban Berg col sostegno del Young Concert Artists Trust di Londra. Dal 1999 al 2001 ha fatto parte del programma “New Generations Artists” della BBC Radio 3. Dall’autunno 2001 è in residenza alla Wigmore Hall di Londra. Oggi la sua attività è sostenuta dal “Royal College of Music’s New Generation Scheme” e da Rosalind e Brian Gilmore. Fosse nato in Italia non avrebbe avuto nulla di tutto questo, lo dico – con cognizione di causa - nella speranza che a qualcuno fischino le orecchie.


Il modello cui si rifà il Belcea è senz’altro quello del quartetto dedito al grande repertorio, e il programma che presentano è splendido e tradizionale.

I loro Ravel e Schubert, ascoltati in disco, mi sono sembrati di un’eleganza svelta, asciutta, senza compiacimenti né rilassatezze. Quel che ho notato è stata una caratterizzazione del suono, soprattutto del primo violino, che mi è sembrato avere una concentrazione interiore, essere rivolto alla sua radice piuttosto che a stemperarsi nell’aria.

La semplicità dei modi ben esprime quella facilità di approccio di cui ho parlato, e che rappresenta nel microcosmo del quartetto forse la più evidente conquista del presente. Dirà il tempo se questa è la strada.


Fulvio Luciani