Auditorium di Milano Fondazione Cariplo, Largo Gustav Mahler

domenica 7 dicembre 2014, ore 11.30


Romantico Bach 4


Johann Sebastian Bach: Partita in re minore per violino solo BWV 1004, versione di Robert Schumann con pianoforte

Alban Berg: Sonata per pianoforte op.1

Johann Sebastian Bach: ”Schafe können sicher weiden”, BWV 208, trascrizione per pianoforte di Egon Petri

Johann Sebastian Bach: Sonata in fa minore per violino e cembalo BWV 1018


Fulvio Luciani, violino

Massimiliano Motterle, pianoforte



note di lavoro: telefono senza fili


In musica si è inclini a concedere uno speciale credito agli interpreti pieni di fuoco, come se l’accensione anche selvaggia fosse una condizione evidentemente favorevole al manifestarsi dei significati più profondi. Tutto cambia con la musica precedente l’Ottocento, per la quale si sente molto motivata l’esigenza di un approccio storicamente avvertito. In musica la filologia, la ricerca di un’esecuzione autentica, è una disciplina recente, che si è sviluppata solo durante il Novecento, quando una generazione di interpreti si propose di “servire la musica”, di renderla cioè manifesta senza sovrapporre la propria alla volontà dell’autore, espressa dal testo scritto.


La ricerca della verità è una manifestazione di amore, e il feticcio di questa ricerca è stata la scrittura. Una corretta lettura è necessaria. La scrittura ha però dei limiti, poiché è un sistema di segni ben lontano dal poter indirizzare esaurientemente l’atto dell’esecuzione, ed essendo comprensibile solo a condizione di conoscere profondamente il linguaggio e le consuetudini di chi la usa di volta in volta. Non c’è differenza sostanziale nella notazione dei vari generi, ma non c’è musicista che possa muovere da uno all’altro solo a partire dalla pagina scritta: un musicista classico sa leggere tutte le musiche ma non può cogliere tra le righe i sottintesi che valgono in uno specifico ambito. Ho conosciuto il caso di un violinista dell’est europeo, vincitore di un premio al Concorso Paganini molti anni fa, che aveva cercato lavoro nelle orchestrine di violini tradizionali del suo paese e non lo aveva trovato, perché non gli era naturale quel particolare senso del ritmo e non conosceva tutte le inflessioni che avrebbe dovuto possedere come un patrimonio genetico e che non è possibile annotare.

Perfino fatti certi come le indicazioni metronomiche vengono discussi. Un caso noto è quello dei metronomi di Beethoven, sempre molto veloci. L’opinione comune è che Beethoven avesse a disposizione un metronomo difettoso, ma ho sentito Maurizio Pollini raccontare di averlo controllato personalmente e di averlo trovato perfetto ancor oggi. Forse l’indicazione di Beethoven voleva avere un valore suggestivo, con l’intento non di fornire un parametro fisso quanto di provocare una reazione nell’esecutore.


Per meglio leggere la scrittura, per non fidarsi dell’effetto che può avere su di noi ma conoscere l’effetto che mirava ad avere sui suoi contemporanei, ci si è rivolti alla lettura dei trattati, libri scritti per spiegare come fare. Sono miniere di informazioni, ma si tratta di informazioni anch’esse da collocare in un quadro del quale dobbiamo ricostruire i termini di riferimento, valide come sono solo in una specifica area geografica e in uno specifico lasso di tempo di cui fotografano gli usi. Una riprova del loro grado di attendibilità potrebbe venire dall’immaginare come un trattatista potrebbe descrivere oggi una situazione che conosciamo bene. Non mi ritroverei, ad esempio, in una descrizione del Conservatorio della città dove insegno che indicasse un approccio in qualche misura comune - perché so che si fa in molti modi qualche volta inconciliabili -, e mi verrebbe da chiedermi per quale ragione dovrei supporre maggiore omogeneità in un’epoca diversa.


Addirittura l’ascolto diretto, quando possibile, non sempre dirime le questioni. Sulla rete si può ascoltare Mahler che suona su un pianoforte a rulli l’Adagietto della sua Quinta Sinfonia. È un’esecuzione semplice, che manca di quell’estenuatezza cui siamo abituati. Altrettanto, ci sono molte occasioni per ascoltare Bartók al pianoforte, e per apprezzare una maniera di suonare particolarmente dolce e niente affatto percussiva, come si sente sempre dai suoi interpreti. E, per fare un ultimo esempio, ricordo il caso di Debussy che nell’esecuzione di un suo Preludio modifica una pausa in una maniera che ne proporziona la durata in sezione aurea; certamente Debussy lo faceva in maniera inconsapevole, e l’esempio vale a mostrare bene quanto il meccanismo dell’esecuzione non sia del tutto governato dalla lettura del testo, nemmeno se chi legge è l’autore.


Ci sono allora le condizioni contingenti da valutare, come se la conoscenza profonda di un fare artigianale potesse in un certo senso funzionare da guida e svelare significati che si rendono manifesti solo nell’atto pratico del suonare. Per primi ci sono gli strumenti, ma nel loro caso non si può far molto più che scegliere la tipologia - non un pianoforte ma un cembalo, ad esempio - e con questo accontentarsi di un’approssimazione molto grossolana, perché non si può certo sostenere che pianoforti e clavicembali siano tutti uguali. Anche lo strumento esatto suonato all’epoca non è che un’approssimazione, perché certamente oggi non suona come suonava allora. E poi ci sono strumenti vissuti per un solo pezzo: Brahms scrisse le Sonate op.120 per un virtuoso che si era costruito un clarinetto da sé, non Sonate per clarinetto ma per quel clarinetto. Senza parlare degli strumenti ad arco, il cui suono è plasmato da chi li adopera, ragione per cui ogni strumento è il risultato della sua propria personalità e della sua storia, e nella sua assoluta unicità sta il suo fascino e il suo valore. In più, l’esecutore reagisce all’ambiente, e anche un ambiente storico oggi risuona diversamente, non fosse altro che per la qualità molto mutata del silenzio intorno a noi. Mi ha molto impressionato, ne parlo qui per analogia, il racconto di un amico che aveva visitato l’Africa e che mi diceva quanto lì fosse diverso, profondo in una maniera che non sapremmo immaginare, il buio della notte. E che dire dell’abilità esecutiva? È dato per scontato che al giorno d’oggi si suoni mediamente molto meglio che in passato. Dunque, un’esecuzione per essere attendibile dovrebbe anche essere mediocre secondo il metro attuale?


In più, c’è la complicazione della percezione, che è un fatto a cui siamo soggetti in maniera inconsapevole. Mi riferisco a quel fenomeno per cui qualcosa sembra perfettamente naturale in un’epoca e completamente fuori luogo in un’altra. Il passaggio ad un’epoca successiva rivela con evidenza quel che prima nessuno notava, vale per la moda, per la maniera di comportarsi, per i violini falsi così come per i quadri. E vale anche per le esecuzioni di qualsiasi tradizione, anche quelle filologiche, che, come tutte le altre, hanno pian piano acquisito modalità autoreferenziali, stilemi e tic che che le identificano immediatamente. Ad esempio, io trovo molte esecuzioni di oggi estremamente violente, nevrotiche nell’andamento, e ricordo con nostalgia i bei tempi andati, quando il mio maestro raccomandava castità nell’espressione e riposo, valori difficili da spendere in un’epoca adrenalinica come la nostra, in cui tutto ma proprio tutto deve avere energia, naturalmente positiva. Certo, si tratta di una mia impressione, mentre una ricerca storica non può non appoggiarsi a fatti certi e documentati, ma se anche una riproduzione il più possibile esatta non può ragionevolmente aspirare ad essere più che un’approssimazione forse potremmo provare a verificare se è così vero che non siamo più in grado di cogliere la musica del passato per il tramite della sensibilità: potremmo scoprire che, invece, la possediamo assai più di quanto non crediamo.


L’oggetto musicale stabilisce un mondo proprio, con regole e caratteristiche sue, e le contingenze che ho descritto non sono la musica ma solo una sua rappresentazione. La musica è altro, che si manifesta nel luogo e nel momento in cui prende vita e si comunica per altra via, come lo sguardo, che noi crediamo di atteggiare ma in cui chiunque sa leggere il molto che non si vuole dire e il qualcosa che forse non è noto nemmeno a chi quello sguardo ha lanciato. Il tramite della sensibilità offre certamente il fianco ad una critica di soggettività. Ma la sensibilità non è il contrario della cultura e da essa si alimenta.


Noi viviamo in un’epoca meravigliosa, in cui godiamo della musica come di una macchina del tempo, che ci permette di vivere in epoche diverse dalla nostra. In questo ciclo abbiamo a che fare con musiche lontane e illustri - storiche, appunto - per le quali, come dicevo, da tempo si è posto il problema di un’esecuzione autentica; non si poteva evitare di affrontare l’argomento prima o poi. Avete in mente il telefono senza fili, quel gioco in cui bisogna dirsi l’un l’altro una frase all’orecchio, e l’ultimo la deve dire ad alta voce così come l’ha capita? Forse la musica del passato ci è arrivata per un tramite del genere. Ma quel che conta è che ha parlato ad ognuno di quella catena, e per ognuno ha rappresentato qualcosa. Anche per noi.


Fulvio Luciani


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