Auditorium di Milano Fondazione Cariplo, Largo Gustav Mahler

domenica 25 gennaio 2015, ore 11.30


Romantico Bach 5


Johann Sebastian Bach: Sonata in do maggiore per violino solo BWV 1005, versione di Robert Schumann con pianoforte

Maurice Ravel: Valses nobles et sentimentales per pianoforte solo (1911)

Bach - Saint-Saëns: Preludio dalla Partita in mi maggiore BWV 1006, versione per violino e pianoforte di Camille Saint-Saëns

Johann Sebastian Bach: Sonata in do minore per violino e cembalo BWV 1017


Fulvio Luciani, violino

Massimiliano Motterle, pianoforte



note di lavoro: solitudine


Strada facendo l’approdo del nostro itinerario nella musica di Bach è sembrato sempre più allontanarsi, e il nostro viaggio diventare sempre più un viaggio alla ricerca.

Lo avevamo intitolato “Romantico Bach” per la scelta di servirci non del testo originale ma di una sua lettura ottocentesca, quella di Schumann, forti del fatto che è stata questa a lasciare per prima una traccia nella storia della nostra cultura e che all’originale si è arrivati attraverso di lei e solo in un secondo tempo. Abbiamo giocato con la macchina del tempo perché abbiamo scelto strumenti e modalità esecutive più vicini a noi e in un certo senso assimilabili più all’epoca della lettura che non a quella della creazione del testo, e ci siamo divertiti a cercare accostamenti con musiche anche lontane da Bach, che gli si apparentassero per qualche aspetto e ne costituissero a loro volta una lettura.

Forse è stato per ragioni inconsapevoli che abbiamo rivolto il nostro sguardo non direttamente all’oggetto ma ai riflessi che ha lasciato di sé, attratti dalle tracce di verità che potevano esservi rimaste imprigionate. Ad una sola tappa dalla conclusione si comincia ad avere in mano carte certe, ed è ora di iniziare a tirare le somme sulla piega che ha preso il nostro viaggio.


Il programma di questo quinto concerto offre l’occasione di ascoltare una versione con pianoforte di un autore diverso da Schumann ma ugualmente illustre e ugualmente ottocentesco, anche se un poco posteriore e di altra area. Si tratta della versione del Preludio dalla Partita in mi maggiore di Camille Sant-Saëns; la versione di Schumann la ascolteremo entro la Partita eseguita per intero nel concerto a conclusione del ciclo.

Già Bach aveva utilizzato questo Preludio una seconda volta nella Sinfonia della Cantata n.29 “Wir danken dir, Gott, wir danken dir”, destinandolo ad un insieme strumentale in cui l’organo obbligato esegue la parte del violino ed è accompagnato da tre trombe, dai timpani, da due oboi e dall’orchestra d’archi.

Di primo acchito questo Preludio sembrerebbe non offrire occasione d’essere eseguito in maniere diverse, essendo in sostanza un moto perpetuo di semicrome. Ho udito però un conosciuto violinista filologo svelarci che è una Toccata sotto mentite spoglie, e come tale andrebbe eseguito con libertà e fantasia di fraseggio e assolutamente non a tempo come siamo abituati a fare. Fosse vero, e lo sarà certamente, non si tratterebbe però di una qualità che è nella musica bensì di un attributo dell’esecuzione al violino solo, perché la Sinfonia della Cantata in nessun modo potrebbe essere eseguita con libertà e senza repentaglio da un organico così ricco e per sua natura così poco capace di assecondarla. Fosse vero anche questo, per Bach quella musica sarebbe due cose, antitetiche ma ugualmente autentiche: una musica libera e improvvisatoria ed un’altra che si alimenta dalla costanza e dall’uniformità del moto.


La Sinfonia non la possiamo eseguire a violino e pianoforte ma vi consiglio di ascoltarla se ne avrete l’occasione. Schumann ragionevolmente non poteva conoscerla ma la versione che dà del Preludio ha qualcosa di molto simile, nel carattere e nell’uso di alcuni elementi ritmici caratteristici, come se fosse naturale adornare quella linea di violino a quel modo. 

Saint-Saëns, invece, sovrappone alla linea del violino una scrittura pianistica tardoromantica ricca e virtuosa, che all’orecchio di oggi suona curiosa ma infedele e datata. Solo dopo averla studiata ed eseguita abbiamo scoperto che la versione di Saint-Saëns è la Sinfonia, avendo egli limitato il suo intervento a ridurre l’orchestra al pianoforte. Dunque, e per complicare le cose, anche una fedeltà letterale può provocare una sostanziale deformazione dell’originale.


Già una volta nei concerti trascorsi avevamo potuto confrontare due versioni, destinate però ad organici diversi. Erano state le versioni di Brahms e Schumann della Ciaccona dalla Partita in re minore, quella di Brahms per pianoforte solo e quella di Schumann per violino e pianoforte. Ed era stato un confronto ricco di interesse, perché le strade percorse sono significativamente diverse, e la scelta dell’organico ne è una conseguenza.

La Ciaccona è una musica così piena di forza da sembrar superare di molto la potenzialità del violino. Schumann sceglie di fornirgli un terreno di appoggio perché provi a valicare i propri limiti, e con questo in un certo senso favorisce la realizzazione di un progetto probabilmente irrealizzabile. Brahms, invece, prende atto dei vincoli stringenti cui quel progetto è sottoposto come fossero la sua forza e lo destina allo strumento che nel tempo è diventato l’emblema della solitudine, cui toglie la potenza che ha coll’imporgli l’esecuzione con la sola mano sinistra, rendendolo fragile e solo com’è il violino nell’originale bachiano.

La versione di Brahms viene in un’epoca che precede l’esecuzione delle Sonate e Partite dai violinisti, così potrebbe sembrare che l’acquisizione al pianoforte sia solo una contingenza favorita dalle circostanze. Ma col toglierla allo strumento cui era stata destinata e per la maniera che sceglie per affidarla al pianoforte, Brahms mette in luce la faccia probabilmente più autentica della Ciaccona.


Si potrebbe discutere a lungo se sia preferibile la scelta di Schumann, che è come annotasse a margine la partitura, o quella drastica di Brahms. Ma rimane che la realtà che ognuna di esse svela non nega la realtà dell’altra. E alla fine entrambe pongono un problema probabilmente centrale in tutto il nostro ciclo, quello della solitudine dello strumento.

È davvero tutta la vita che mi chiedo ragione del fascino che la voce del violino ha, almeno su di me. Non ho mai avuto paura di suonare il violino da solo, forse perché amo quella dimensione che è tutta pianistica del colloquio con sé, della riflessione privata, e mi piace pensare di poterla riprodurre anche con lo strumento che suono. Ma quella dimensione è innaturale per il violino. Il violino ha una voce di una bellezza sontuosa ma incompleta, che è protagonista ma che ha bisogno del sostegno di altri, e che ha la facoltà misteriosa di conservare tutto il suo fascino e la sua naturalezza anche quando è moltiplicata in una moltitudine com’è in una fila di violini di orchestra, ciò che a logica dovrebbe cozzare con la sua natura da primadonna.

È così anche per la voce umana, che è bella da sola ed è bella altrettanto quando canta in un coro, che, come la fila d’orchestra, trae la propria vita dall’alimentarsi delle individualità che lo compongono e non dal loro annullarsi l’una nell’altra.

C’è una dimensione affascinante nella solitudine innaturale di uno strumento che solo non potrebbe stare, e altrettanto nella nudità di un strumento che è nato per essere indipendente e a cui si sottragga la più parte delle sue facoltà col togliergli la mano destra e con essa il registro del canto. Quale delle due sia più autentica e più vicina all’idea di Bach io non so, ma ora mi accorgo che molto più di quanto non credessimo il nostro viaggio è stato alla ricerca della verità.


Fulvio Luciani

6 concerti dedicati a bach

foto sara simoncelli

romantico bach 5